Sergio Dalmasso storico del movimento operaio. QUADERNI CIPEC e Altri Scritti
  

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Brevi note sul nostro congresso  Dicembre 2004   Torna alle categorie

Brevi note sul nostro congresso2004

Sergio Dalmasso.

Brevi note sul nostro congresso 2004

 

Come già detto e scritto, avrei preferito un congresso diverso, basato su una discussione reale e partecipata circa i grossi nodi che Rifondazione ha, non da oggi, davanti a sé, non ultimi identità, radici, storia, riferimenti, sino ai rapporti con le enormi questioni globali.

A differenza di Gianni Alasia, non uso il termine correntismo. So che tendenze sono sempre esistite nella lunga storia del movimento operaio, so quanto abbia negativamente pesato la cancellazione di queste nel tremendo frangente della guerra civile in URSS, so quanto questo fatto, legato alla abolizione della libertà di stampa, costituisca un precedente per la profonda involuzione successiva che ha cancellato ogni forma di democrazia di base (i Soviet), ogni pluralismo nel partito e nella società, anticipando quindi il termidoro staliniano.

La preoccupazione riguarda rischi, altre volte verificati, di un congresso come quello che si sta aprendo:

  •  l’esclusione dal dibattito di tant* iscritt*, cosa particolarmente pericolosa, in una realtà come la nostra, dove un quarto dei componenti è formato da giovani e la metà è di nuov* aderenti.
  •  L’immagine esterna di divisione su temi e questioni che non è sempre facile declinare e far comprendere.
  •  Le lotte per il voto, per gli organismi dirigenti, per un potere spesso “vuoto”, cosa che rischia sempre maggiormente di “accomunarci agli altri”.
  •  La personalizazione di legittime diversità di valutazione.
  •  Soprattutto il cristallizzarsi di posizioni, di sottostrutture, con la creazione di tanti micropartitini nel partito, in cui ognun* non risponde al tutto, ma solamente ad una parte.

Altra cosa è la legittimità di posizioni differenziate, di critiche al gruppo dirigente, della stessa liceità di riviste, associazioni culturali, incontri organizzativi che giustamente sono entrati, anche se con difficoltà, nella prassi del nostro partito (e dello stesso PCI nel suo ultimo periodo).

Impegno comune deve essere quello di ricordare che siamo un solo partito, che da questo congresso dovremmo uscire più forti, con maggiore capacità di impatto esterno, di aggregazione, anche, ma non solo perché avremo a ridosso una scadenza non facile (le regionali e forse i referendum sulla fecondazione assistita).

 

Quali nodi per il congresso?

Altro pericolo è che l’intero dibattito verta su un solo tema, quello cioè della nostra partecipazione alla GAD e ad un futuro (ipotetico dato il rilancio della destra) governo.

Insisto sul fatto che quasi tutti gli altri congressi siano avvenuti su un solo punto:

1991: la necessità di dimostrare l’esistenza di una forza comunista

1994: l’adesione all’alleanza progressista

1996: la partecipazione alla maggioranza (non al governo) di centro- sinistra

1999: la nostra esistenza dopo la scissione (la maggiore delle numerose avvenute).

Solo il congresso del 2002 è uscito da questi limiti e da queste strettoie, compiendo scelte e imboccando una strada poi parzialmente corretta in seguito.

Rifondazione paga dibattiti sempre rinviati, il ritardo con cui ha affrontato alcuni temi (la centralità delle questioni globali, un giudizio condiviso sulle cause della crisi del “socialismo reale”, il rapporto fra le tradizioni delle sinistre italiane e le nuove tematiche e soggettività). Di conferenza programmatica si parla da molti anni, di “evento”, capace di legare il nostro partito con altre esperienze si è parlato con enfasi in un Comitato politico ed in interviste e poi la cosa è rimasta sulla carta.

Due sono invece, questioni su cui sarebbe importante avere un dibattito maggiore e su cui non da oggi ho espresso critiche e preoccupazione:

  •  la fisionomia di una forza di sinistra alternativa oggi, nel rapporto fra tradizione ed innovazione
  •  forme e modi del suo funzionamento democratico, del rapporto tra gruppi dirigenti e base.

Identità e storia.

Rifondazione è nata in un momento in cui pareva che tutto il movimento comunista stesse scomparendo ed ha tentato di essere, almeno nella prima fase, un punto di incontro fra storie diverse, esperienze anche antitetiche, riferimenti politico- culturali molto lontani.

Non solo tra chi usciva dal PCI e quanto restava di venti e più anni di nuova sinistra (i resti di DP), ma tra chi nel PCI aveva avuto percorsi diversi (la “corrente cossuttiana”, gli ingraiani, gli ex PDUP). Molti di noi hanno visto in quel frangente l’occasione strategica e non contingente, non solo di dare vita ad una formazione consistente e capace di grandi legami sociali, ma anche di rimettere in discussione riferimenti internazionali, strumenti organizzativi (partito e sindacato), i nostri passati, di rilanciare il legame socialismo/ democrazia, vera cartina di tornasole delle sconfitte novecentesche. Favorivano questa possibilità i comuni scacchi (la fine di un partito vissuto settant’anni, la crisi irreversibile della nuova sinistra, il crollo di tutti i riferimenti su cui si erano costruite le rispettive identità).

Il nodo fondamentale era legare la parte migliore della tradizione comunista e socialista (l’Italia ha avuto Gramsci e anche Basso, Morandi, Panzieri, Bosio) rifiutando la totale liquidazione, declinandola con le grandi tematiche emergenti:

  •  pace/guerra davanti alla nuova natura della guerra e ad una società dominata militarmente da una sola potenza (novità nella storia)
  •  la questione ambientale nella sua drammatica novità (si vedano gli ultimi scritti di Sebastiano Timpanaro che la ritiene la prima emergenza, già in atto, più del pericolo costituito dalla guerra nucleare)
  •  la questione di genere, non riducibile al tradizione emancipazionismo del movimento operaio, ma portatrice di un nuovo paradigma.
  •  Il rapporto nord/ sud (o centro/periferia) davanti alla definitiva scomparsa della contraddizione est/ ovest.

Una nuova identità comunista, alla fine del ‘900, non significava cancellare pagine di storia, rivoluzioni, vittorie, sconfitte, tragedie, crimini, ma assumere l’eredità delle parti migliori, comprendere le cause degli scacchi, legare la nostra tradizione con quanto di nuovo ed importante era emerso negli ultimi decenni. Non, quindi, un PCI in sedicesimo, ma neppure la riproposizione di una delle tante forze della nuova sinistra. Non il “continuismo”, ma neppure l’abbandono di ogni riferimento per correre dietro al “nuovismo”, nella convinzione che una forza politica senza radici non ha neppure un futuro.

In questi (tanti) anni, non sono mancati le tappe e i segni positivi: dall’atteggiamento coraggioso dopo il tentato colpo di stato nell’agonizzante URSS (agosto 1991) alla capacità di critica del socialismo reale, dalla messa in discussione di una tradizione togliattiano- berlingueriana (ad opera dello stesso Cossutta) al recupero di figure quali quelle del Che e di Rosa, dalla messa al primo posto dei bisogni popolari (governo Dini) all’apertura verso nuovi movimenti (il Chiapas).

Di particolare importanza la capacità di comprensione verso le nuove dimensioni assunte dai movimenti dopo Seattle e Genova. Altre scelte (penso all’articolo sul “Manifesto” di Grassi e Burgio in coincidenza con le giornate di Genova) ci avrebbero collocati all’esterno rispetto a una grande spinta ideale e sociale, rispetto ad esperienze e generazioni che hanno espresso istanze e forme di partecipazione che è compito di una formazione politica comprendere e dialettizzare.

L’internità al movimento, la capacità di contaminare ed essere contaminati sono scelte fondamentali che ci hanno caratterizzati come forza politica aperta, capace di dialogare e di mettersi in discussione, non saccente e dogmatica (pensiamo come anche localmente abbiano pesato negativamente atteggiamenti identitari). E’ fondamentale per i/le nostr* iscritt*, porsi le tematiche globali, modificare lo stile del fare politica, assumere come interlocutori non solo “i/le comunist*, ma tutt* coloro che si impegnano contro la guerra, il degrado ambientale, le contraddizioni della società capitalistica, sapendo che una alternativa, dopo i fallimenti che abbiamo alle spalle non nasce da ricette sicure e che il crollo dell’est peserà per generazioni anche su chi è sempre stato critico verso le deformazioni staliniane e i regimi modellati su queste.

Non concordo, però, e non da oggi con l’atteggiamento per cui il movimento altermondialista è in grado, da solo, di risolvere qualunque contraddizione ed offrire risposte vincenti. La storia del movimento operaio ed anticapitalista non inizia a Seattle o a Genova. Al di là della retorica, esso è in grado di incidere fortemente sulle reali scelte politiche, di aprire vertenze, di ottenere risultati concreti? La negazione della necessità di qualunque forma di partito (cioè della strategia e della tattica), l’esaltazione di un movimento incontaminato che costruirà dal basso la propria rete di esperienze, e, al tempo stesso della lineare ineluttabilità del processo rivoluzionario delle moltitudini appartengono ad una cultura neospontaneista che pensiamo debba essere discussa nelle sue comprensibili motivazioni e superata.

Rifondazione deve evitare, quindi, qualunque chiusura, comprendere ed assumere le grandi tematiche globali, ma al tempo stesso, sintetizzarle e dialettizzarle con una storia fatta non solamente di errori e di tragedie, di crimini e di efferatezze, ma anche di lotta, sacrificio, impegno, convinzione, conquiste, sogni, costruzione di organizzazioni e movimenti che hanno tentato di trasformare il mondo.

La critica allo stalinismo (e la rottura con esso) è ovvia e sacrosanta, non solo sul piano storiografico e teorico, ma su quello pratico. Significa negazione della concezione della costruzione del socialismo come prodotto del solo partito e, in questo, del solo vertice. Significa rifiuto del culto per il capo, della mitizzazione dei dirigenti, rilancio di una prospettiva socialista legata ad una autentica democrazia di base (i Soviet e i consigli), rifiuto delle doppiezze e delle doppie verità (quelle per i capi e quelle per la base). La attuale oggettiva crisi della democrazia liberale (calo della partecipazione, calo dei votanti, depoliticizzazione della società, svuotamento progressivo dei parlamenti, sempre più evidenti intrecci tra politica ed affari- spesso criminali-) può costituire l’occasione per la riproposizione di una nuova concezione del rapporto tra governant*/governat* e di una reale e non formale partecipazione (nodo irrisolto dal vecchio Rousseau ad oggi).

Stanno passando, invece, al nostro interno, posizioni radicalmente lontane da queste esigenze:

  •  o quelle continuiste che nel primato del partito colgono esigenze giuste, ma non sufficienti: il bisogno di organizzazione e di linee politiche chiare convive con la mancata critica verso errori e deformazioni della nostra storia (ad esempio la riproposizione a tutto tondo della vicenda del PCI, o più grave, verso l’URSS, la Cina e le realtà “socialiste”, (si vedano, ad esempio, gli articoli di Domenico Losurdo, firmatario della seconda mozione, per il cinquantesimo della morte di Stalin).
  •  O, all’opposto, quelle che cancellano interamente un secolo. La rivoluzione di ottobre non è neppure oggetto di discussione- lasciamo perdere le celebrazioni- (vedi il silenzio di “Liberazione”), una lunga serie di esperienze, anziché essere attraversata criticamente è liquidata, ogni tentativo rivoluzionario viene tout court assimilato alla tentazione totalitaria, il partito è di per se stesso letto come produttore di autoritarismo. La identificazione tra stalinismo e comunismo in Oltre il ‘900 di Revelli è significativa, come è tristemente (e non per la prima volta) significativo l’innamoramento impressionistico per le tesi di Negri, a lungo vero maitre à penser dei Giovani comunisti (ignari dei mille salti teorici da lui operati nei decenni?). La banalità sulla fine del concetto di imperialismo, tanto discussa nello scorso congresso, e vero “assist”, come nel basket, per l’area di “Ernesto”, mi sembra conseguenza di questo.

Queste scelte portano o a ripetere dogmi, in chiave comprensibilmente, ma non giustamente, nostalgica o ad operare tagli che recidono qualunque radice. Fra le tante matrici (ecologia politica, femminismo politico, radicalismi cristiano, antimperialismo e antimilitarismo) oggi necessarie per riipotizzare una alternativa , non possiamo prescindere da quelle comunista e socialista.

Il nodo dei rapporti di produzione, del cambiamento del sistema economico, di una diversa gestione della società tornano caparbiamente a dimostrarsi attuali. Il tanto citato ritorno a Marx non può cancellare oltre un secolo di storia del movimento operaio, dalla critica di Rosa al riformismo, alla categoria di imperialismo (Lenin e, ancor più Rosa), dai problemi posti, e non risolti, nella prima fase della Terza internazionale all’analisi gramsciana sulla rivoluzione mancata in occidente, dalla (auto)critica di Trotskij alla riscoperta dell’internazionalismo negli anni ’60 (il Che e non solo), dalla riflessione del “marxismo occidentale” (so che molti rifiutano questa espressione) alle lotte anticoloniali, impensabili senza la realtà dei movimenti comunista ed operaio.

Certo, tutto è da ripensare. Il nodo focale degli anni ’20 (deformazione dell’ottobre, costruzione di tutti i partiti su un unico modello) non è l’unico su cui tornare. Esistono potenzialità negative e rischi anche nella politica precedente e nessuna corrente critica del ‘900 è esente da limiti. Proprio gli stessi errori ci permettono, però, oggi di riflettere sui gravi problemi affrontati e non risolti, su quanto il movimento comunista abbia contribuito, nonostante tutto, ad un avanzamento storico complessivo (liberazione nazionale e avanzamento della classe operaia occidentale) e su quanti aspetti attuali e fecondi esistano in un pensiero, non a caso troppo a lungo deformato. Un semplice ritorno a Marx rischia di rimanere uno slogan, buono per tutti i congressi, se non chiarito, e di impedire di cogliere motivi e cause di una sconfitta (in primis lo stalinismo non come formula, ma nelle sue radici sociali di distacco dall’ottobre).

Da qui anche l’errore della liquidazione sommaria di Lenin che è da discutere in tutte le fasi della sua opera, in particolare sulla questione della democrazia (dal dibattito sul partito di inizio secolo alla soppressione dell’assemblea costituente nel gennaio 1918, dalla già ricordata stretta nel 1919 all’ultima disperata battaglia contro il trasformarsi del partito in Leviatano).

La problematicità di molti temi e il fatto che il dirigente sovietico abbia sempre piegato l’analisi teorica alle necessità dello scontro politico non possono cancellare l’analisi della trasformazione di fase del capitalismo (in imperialismo), la scelta internazionalista contro il nazionalismo di tutti i partiti socialdemocratici, la capacità di analisi concreta della situazione concreta, la rivalutazione dell’elemento soggettivo e volontaristico contro il determinismo della Seconda internazionale (quello che entusiasmava un Gramsci ancor poco marxista, quando scriveva La rivoluzione contro il Capitale). 

 

La democrazia interna.

Ad un aumento dei voti (siamo tornati alla percentuale del 1994) corrisponde ogni anno un calo del tesseramento. Il turn over in Rifondazione ha, da sempre, percentuali altissime. La vita dei circoli è spesso asfittica, priva di iniziativa e di reale confronto politico. La riduzione a piccoli comitati elettorali (o, nel nostro caso, congressuali) è un pericolo reale. I frequenti terremoti e cambiamenti di rotta che hanno costellato i nostri quattordici anni di vita fanno sì che solamente una parte degli iscritti alla fondazione sia nel partito ancora oggi.

Il problema organizzativo non può essere disgiunto da quello politico, ma deve essere affrontato ridando ruolo al tesseramento (perché le tessere arrivano così tardi e sempre “contingentate”?), ma soprattutto ai circoli e agli/alle iscritt*.

Le scelte debbono essere elaborate collettivamente, frutto di discussione e di confronto e non possono essere imposte. Non si tratta di mettere in discussione la necessità di delega al gruppo dirigente, ma di ricostruire un reale rapporto democratico di partecipazione di tutt*.

L’innovazione e l’autoriforma, proposte al quinto congresso, sono state solamente abbozzate. Nella più parte dei casi, gli/le iscritt* si sono trovat* davanti a fatti compiuti, a scelte da cui si sono sentit* espropriat*, o comunque parte non attiva.

Non è in discussione la triste necessità di muoversi in una società mediatica, in una politica sempre più basata su figure, interviste, dichiarazioniné si contestano preparazione e capacità del segretario nazionale (il congresso non è un referendum pro o contro Bertinotti ed occorre sempre evitare banalizzazioni). La questione è che la vera ricchezza di un partito sono gli/le iscritt*, i/le militanti, i quadri (manca il corrispondente femminile?). Da anni rifiutiamo la sciocca alternativa: partito di militanti/ partito di quadri nella convinzione che il numero, la qualità e l’impegno non debbano escludersi l’uno con l’altro.

Questo implica una loro valorizzazione che non è certamente avvenuta negli ultimi anni.

  •  Sinistra europea. Giusta e ovvia la scelta, capace anche di aprirci a settori a noi vicini. Al di là di un passaggio del documento congressuale del 2.002 la cosa è però avvenuta al di là di una discussione “dal basso” e di una maggiore informazione. Non dimentichiamo, poi, il carattere “processuale” più volte ripetuto, con la necessità, quindi, di allargamento in più direzioni, e le contraddizioni interne, anche su temi centrali. A che punto siamo?
  •  Violenza/Nonviolenza. E’ giusto porre la questione, ovvio superare i luoghi comuni che identificano nonviolenza con rinuncia, vigliaccheriaLa scelta è avvenuta, però, in modo unilaterale (perché non pensare a convegni aperti a valutazioni diverse?) e con un forte slittamento interno. Diverso è “relativizzare e storicizzare” (convegno di Venezia) dalla “scelta strategica” successiva (dichiarazione di Bertinotti alla presentazione del libro scritto con Menapace e Revelli). Anche qui i/le singol* iscritt* non hanno potuto che schierarsi a fare il tifo per l’una o l’altra posizione interna.
  •  GAD. La storia di Rifondazione è segnata da mutamenti e modificazioni di linea. In sintesi: 1994, accordo politico elettorale dei Progressisti, 1995 recisa opposizione al governo Dini (prima scissione), 1996, desistenza con l’Ulivo, 1998, rottura con Prodi e seconda scissione, 2.000, accordo per le regionali, 2001, presentazione autonoma al Senato e non presentazione in una delle due schede alla Camera (qualcuno ricorda ancora il dibattito Bertinotti- Rossanda?). Un accordo elettorale è oggi indispensabile. Qualora non venisse sottoscritto:
  1.  andremmo incontro ad un disastro elettorale che comprometterebbe una nostra presenza parlamentare e, in queste condizioni, anche l’esistenza stessa di Rifondazione. La scelta non sarebbe compresa se non da settori molto esigui, essendo centrale, in settori democratici e di sinistra, la necessità di battere il governo delle destre, a causa anche della mancata costruzione, in tutti questi anni, di un polo alternativo di sinistra. 
  2.  Daremmo (cosa ancor più grave) la garanzia di vittoria alla peggior destra europea, a questo intreccio di post- fascismo, integralismo cattolico, populismo, razzismo con conseguenze gravi per gli stessi equilibri democratici già compromessi.

Non esistono, certamente, ricette. E chiaro che un accordo anche elettorale debba partire dalla cancellazione di quanto costruito dalle destre (leggi 30, Moratti, Bossi- Fini,  sulla magistratura, devolution, guerra in Iraq). Che esista una volontà nel centro- sinistra di farlo è quanto mai dubbio (ricordate la Turco- Napolitano, il pacchetto Treu, la politica scolastica di Berlinguer, la guerra in Kossovo, la riforma federale passata in fretta e furia fregandosene della Costituzione?). Più difficile ancora ipotizzare un percorso in positivo (lavoro, occupazione, crisi FIAT, basi NATO, politica energetica ed ambientale).

La maggioranza ipotizza un accordo basandosi sul cambiamento del centro- sinistra e sulle spinte di movimento (di cui Rifondazione dovrebbe essere tramite in un futuro ipotetico governo). La seconda mozione tenta di fissare paletti programmatici, la terza nega ogni possibilità di intesa, teorizzando una “non diversità” fra i due blocchi, la quinta propone accordi con i DS, maggior forza della sinistra, e non con la Margherita e il “centro borghese”. Ovvie anche le difficoltà di praticare quanto proposto dalla quarta mozione (Malabarba). Un accordo elettorale e non politico è quanto votato dalla nostra federazione al congresso del 1994 (documento Ferrero- Perini) e sostanzialmente è stato alla base della desistenza (1996). E’ chiaro che questa non ha impedito che su noi ricadessero critiche e contraddizioni per tanti atti del governo Prodi (privatizzazioni e non solo) e che la stessa rottura con questo ci sia costata un prezzo enorme.

Il pericolo maggiore, però, mi sembra quello una nostra totale identificazione con politiche che da ogni segno sembrano non rompere con il passato e con una continuità moderata. La stessa vicenda delle elezioni regionali dimostra come le nostre candidature non siano mai accolte e come su nodi centrali (in Piemonte alta velocità, FIAT, inceneritori) pesino più di noi i “poteri forti”.

Accordi elettorali per battere le destre debbono accompagnarsi ad una autonomia programmatica e soprattutto al rilancio di quella sinistra alternativa (forze politiche, sindacali, sociali, culturali) di cui si parla da anni. La domanda: perché non pesa il 13% di voti (certo molto differenziato) a sinistra del listone non è retorica e dovrebbe cominciare a trovare risposta. E’ questa l’unica strada per uscire dalla morsa in cui viviamo da anni: accordi insoddisfacenti per la nostra stessa base sociale o emarginazione, con i conseguenti ricatti che siamo costretti a subire.

Al di là delle valutazioni di merito, in ogni caso, anche l’adesione alla GAD è stata letta da molt* iscritt* come una accelerazione ulteriore, dopo tutte quelle già vissute negli ultimi mesi, frutto di un rapporto verticistico e non democratico, di un partito visto dal gruppo dirigente quasi come una remora che deve essere oggetto di continui strappi.

Si ripropone il problema di una reale democrazia interna

  •  decisioni prese collettivamente, partendo dai circoli e dalle commissioni di lavoro e non conosciute attraverso interviste o dichiarazioni televisive
  •  rotazione nelle cariche elettive
  •  ritorno a forme di autofinanziamento, senza le quali la nostra dipendenza dalle istituzioni è totale
  •  non identificazione tra direzione politica e cariche parlamentari e divieto di sommare incarichi
  •  maggior presenza operaia (o comunque del lavoro dipendente) negli organismi direttivi e nelle istituzioni.

Non vi è alcuna garanzia, ma occorre almeno mettere a fuoco i nodi su cui si sono arenati tutti i partiti del movimento operaio.

 

In base a queste brevi note, scritte a braccio, negli ozi natalizi, credo che i/le compagn* si rendano conto che non sono “uomo di partito” (e, ancor meno, “di corrente”) e che sarebbe utile pensare ad un ricambio nella nostra federazione. Si era pensato ad un congresso soft, in cui i gruppi dirigenti non dipendessero dall’esito del voto, ma da capacità e disponibilità. Questo sarà possibile se i danni delle logiche di parte (non delle sacrosante diversità di opinione) che già sono comparse non diverranno irreversibili.

Abbiamo davanti a noi compiti grossi:

  •  la stabilizzazione della crescita avuta negli ultimi due anni e di realtà da poco ricostruite
  •  la formazione di gruppi di lavoro (giovani, lavoro dipendente, enti locali)
  •  il tentativo di rilancio di situazioni in difficoltà (Fossano, Mondovì)
  •  l’accrescimento del legame con realtà esterne, dal tavolo delle associazioni al coordinamento degli immigrati
  •  un rilancio di un dibattito politico- culturale esterno (i vecchi incontri del CIPEC) da non limitare alla città di Cuneo
  •  la crescita di dibattito politico interno che non scimmiotti quello nazionale (alcune difficoltà che viviamo oggi dipendono anche dal poco dibattito svolto in passato e questa è anche responsabilità mia)
  •  la formazione dei/delle tant* giovani (deluderl* sarebbe un crimine) e di un vero gruppo dirigente provinciale.

 

Qualunque esito abbia il congresso locale, ricordiamo che siamo tenuti alle scelte complessive nazionali.

 

Cuneo, 25 dicembre 2004.